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Partership al progetto, pt.2

Intervista a Giuseppe Ungherese, Responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia dal 2015. Esperto in inquinamento ambientale e da microplastiche in ambiente marino.
Dopo anni da ricercatore universitario (e con un dottorato in tasca), ora combatte tutti i giorni quelle sostanze tossiche e pericolose, per noi e per il Pianeta, che prima affrontava in laboratorio.



C: Ho letto della vostra battaglia contro l’uso della plastica da parte delle multinazionali, avete
notato se da parte loro vi è una volontà di cambiare e ridurre questi drammatici usi? 

G: La produzione di plastica su scala globale continua ad aumentare vertiginosamente e, secondo le
stime più recenti, raddoppierà i volumi del 2015 entro il 2025 per quadruplicarli entro il 2050.
L’industria del packaging è quella che contribuisce maggiormente a formare questa domanda con una quota globale intorno al 40 %.
Questi dati non sembrano affatto coerenti con le dichiarazioni delle maggiori multinazionali del
food & beverage in merito alla volontà di intervenire sull’utilizzo della plastica monouso per la distribuzione dei propri prodotti, come evidenziato da Greenpeace nel recente report “A crisis of convenience”: https://www.greenpeace.org/international/publication/19007/a-crisis-of-
convenience-the-corporations-behind-the-plastics-pollution-pandemic/.
Infatti, nonostante le aziende interessate siano concordi nel riconoscere che il riciclo da solo non è in grado di far fronte alla crisi dell’inquinamento da plastica, continuano ad evitare il problema cercando di sostituire un materiale monouso con un altro, senza prendere in considerazione l’unica soluzione realmente efficace che è un cambiamento sostanziale dei sistemi di consegna basati su riuso e ricarica e che prescindano dall’ usa e getta.
Le aziende che operano nella grande distribuzione hanno una grande responsabilità per la crisi
dell’inquinamento da plastica, ma allo stesso tempo hanno la grande opportunità di agire in prima linea per far subito fronte al problema. Opportunità che mancano di cogliere; le multinazionali del settore alimentare e della produzione di beni di consumo continuano a dipendere dall’utilizzo dell’usa e getta nell’offerta dei propri prodotti ai consumatori puntando sull’aumento dei tassi di riciclo dei packaging utilizzati. L’unica azione efficace ad oggi è un aumento degli investimenti nella progettazione di sistemi di riuso e ricarica per l’offerta dei propri prodotti e il redesign dei prodotti in modo da rendere non più necessario l’utilizzo dell’usa e getta per il confezionamento. In quest’ottica il riciclo è sicuramente un intervento utile ma solo a supporto di un cambiamento radicale che preveda una riduzione generale della produzione di plastica, che sia accompagnato da un aumento della trasparenza da parte delle aziende interessate che si impegnino a fornire informazioni riguardo la loro “impronta plastica” e a ridurre l’utilizzo della plastica monouso tramite la definizione di specifici target numerici e scadenze.


C:  La plastica e le microplastiche soprattutto rappresentano in modo spaventosamente
allarmante un problema sempre più attuale, ho visto che avete operato una campagna di
raccolta sulle spiagge, che tipo di dati avete raccolto? Che tipo di rifiuti sono maggiormente
presenti? 

G: Nell’estate 2018 Greenpeace ha lanciato l’iniziativa Plastic Radar che tramite un approccio di investigazione condivisa, ci ha permesso di raccogliere informazioni utili sulla quantità, tipologia, caratteristiche e aziende produttrici dei rifiuti in plastica presenti sulle nostre spiagge.
La maggior parte dei marchi segnalati appartenevano ad aziende come:
San Benedetto(15,87%), Coca-Cola (14,66%) e Nestlé (14,38%).
In generale quindi i rifiuti in plastica più presenti erano riconducibili ai marchi del food & beverage e tra le tipologie identificate il 25,58% era costituito da bottiglie in plastica (quasi un rifiuto su 4); il 10% erano confezioni per alimenti; il 4,28% sacchetti usa e getta e a seguire con percentuali intorno al 3% bicchieri, flaconi per detersivi e tappi.
Dall’analisi è emerso che anche i rifiuti attribuibili al settore della pesca, come reti (3,10%) e le
cassette di polistirolo (2,81%), rappresentavano una delle categorie di rifiuti in plastica più
presente sui litorali italiani.


C: Mi sono interessata all’opera delle balene di plastica installate al Pantheon l’estate scorsa,
credete che in qualche modo l’arte sia un modo per sensibilizzare maggiormente le persone su
questo delicato argomento? 

G: L’arte permette di raggiungere tantissime persone e toccare i sentimenti di ognuno di noi. Le
balene al Pantheon, oltre a portare il problema dell’inquinamento da plastica al centro di Roma, hanno fatto il giro del mondo e hanno permesso di raggiungere tantissime persone. Grazie anche ad istallazioni come questa, insieme al lavoro di ricerca e denuncia che è nel DNA di Greenpeace, oggi in tutto il mondo più di 3 milioni di persone si sono unite all’appello di Greenpeace per chiedere alle grandi multinazionali degli alimenti e delle bevande di ridurre la produzione di plastica monouso ed investire in sistemi di consegna alternativi.


C: A questo proposito, nell’ambito di questo Laboratorio di progettazione, la mia proposta è
quella di un centro per il quartiere di Tor Sapienza, di raccolta, riciclo (ove possibile) e riuso
creativo della plastica, associato anche a centri di ricerca universitari e piccoli spazi dedicati
anche ad artisti che intendono operare con i materiali forniti. Pensate che anche l’architettura
possa essere un valore aggiunto nella battaglia quotidiana contro l’inquinamento? In tal caso
pensate sia un’idea interessante? 

Iniziative come questa sono senza dubbio lodevoli ed in grado di dare nuova vita a prodotti a fine vita. In questo contesto anche l’architettura può fare la sua parte sperando che, oltre al riciclo e al riuso, cerchi soluzioni innovative che non prevedano il ricorso alla plastica.




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